L’agroalimentare italiano cresce sui mercati esteri
Nel 2019, l’export agroalimentare italiano ha raggiunto la cifra record di 43 miliardi di euro, in incremento del 3,7% rispetto al 2018. E i distretti agroalimentari di qualità, che costituiscono una parte importantissima di questo panorama, hanno incrementato in percentuale addirittura maggiore le loro esportazioni: +4,4% rispetto all’anno precedente, con un volume di vendite all’estero di oltre 19 miliardi.
Sono alcuni dei dati che emergono dall’ultimo Monitor dei distretti agroalimentari di Intesa Sanpaolo, che ha analizzato anche il primo trimestre 2020, con dati rassicuranti nonostante tale periodo abbia visto l’inizio delle misure di lockdown in Italia e in Europa. A fronte di distretti non-agroalimentari che hanno visto cali dell’export in doppia cifra percentuale, quelli agroalimentari hanno continuato a prosperare: 5,1 miliardi di esportazioni nei primi tre mesi dell’anno corrente (miglior trimestre invernale di sempre, +9,3% rispetto al primo trimestre 2019).
Ragionando per settori, nel primo trimestre 2020 è ancora il vino a registrare il maggior volume di esportazioni (1,3 miliardi), ma è la filiera della pasta e dei dolci a contribuire maggiormente alla crescita rispetto all’anno precedente, con addirittura il 27,6% di giro d’affari in più rispetto al 2018; anche carne e salumi e riso fanno registrare ottime crescite (rispettivamente +10,1% e +12,3%), mentre olio e distretti agricoli riescono ad invertire la rotta che li aveva visti chiudere in negativo lo scorso anno. Unica filiera in negativo è quella dei prodotti ittici, il cui calo è da Intesa imputato alla mancata richiesta registrata dal canale ho.re.ca.
Tra le nazioni che più importano i prodotti nostrani la fa ancora da padrone la Germania, che ha aumentato l’import dell’11,5% nel primo trimestre 2020. Crescono del 20% le esportazioni verso la Francia, mentre si fermano al +9% quelle verso gli Usa. Solo il Regno Unito ha diminuito le richieste di prodotti italiani, probabilmente anche a causa del rischio di una Brexit “no-deal”.