Milano Investment Partners: “Ecco cosa guardiamo”
Stefano Guidotti è founding partner della società emblema della new wave del venture capital made in Italy. In questa intervista traccia un bilancio degli investimenti e preannuncia le tesi che saranno alla base del secondo fondo.
di massimo gaia
Accompagnare il cambiamento nei comportamenti dei consumatori, seguendo la strada tracciata dalla bussola del digital e ponendosi a metà strada fra venture capital e private equity. Milano Investment Partners (Mip) è uno dei player principali della rinascita degli investimenti in capitale di rischio in Italia. Nata da appena un triennio, Mip ha messo a segno alcuni dei deal più emblematici della new wave del venture made in Italy. E, soprattutto, sta progressivamente alzando il tiro, mettendo nel mirino aziende di taglia sempre maggiore.
Stefano Guidotti (nella foto) è founding partner di Mip. Per quanto non ancora quarantenne (39 anni), Guidotti ha già maturato un track record solido nel venture capital: Mip, infatti, nasce dall’esperienza di U-Start, uno dei primi esempi di coinvolgimento di family office e imprenditori negli investimenti in startup. Grazie alla spinta di un anchor investor come Angelo Moratti (fondatore e presidente del cda), Mip ha attirato capitali istituzionali ed effettuato deal sempre più ambiziosi.
In questa intervista, Guidotti traccia un primo bilancio dell’attività di Mip, parla di come sta cambiando la view sui potenziali investimenti alla luce della crisi economica provocata dalla diffusione del coronavirus Covid-19 e anticipa la strategia del secondo fondo.
Guidotti, partiamo dalla fine, ovvero dall’ultimo investimento, quello in Poke House: qual è la filosofia che vi ha spinto a puntare su un’azienda del food nonostante l’impatto sul settore della pandemia?
Abbiamo approvato l’investimento in Poke House il 17 febbraio, pochi giorni prima che venisse rivelato il primo caso di Covid-19 in Italia. Ma siamo andati avanti ugualmente, convinti che la tesi alla base della scelta di puntare su Poke House fosse corretta a prescindere. E infatti, negli ultimi mesi il gruppo ha continuato a crescere in modo impressionante e, soprattutto, sano. Di fondo, Poke House è un’azienda che interpreta il food in modo contemporaneo, ovvero delivery, loyalty, centralità del cliente.
Che tipo di sviluppo immaginate per Poke House?
Sostanzialmente lo stesso alla base degli altri investimenti in portafoglio (Miscusi, Velasca, Colvin, Exoticca, La Passione Cycling Couture e Manebí), ossia conquistare quote di mercato fuori dall’Italia, divenire il player di riferimento del settore in un’area geografica ampia, che solitamente identifichiamo con il Sud Europa, nell’arco di 3-5 anni.
A proposito di portafoglio, state pensando a un’exit dalle partecipate?
No, è troppo presto: le due partecipazioni più vecchie, Miscusi e Velasca, risalgono al luglio 2018. Tutte le aziende sono in fase di crescita. Ci sono alcuni segnali di mercato, intendo sia in termini di interesse generale, sia relativamente a casi specifici, ma non prevediamo exit prima di un anno e mezzo-due anni a partire da oggi.
A meno che non arrivi una Campari che mette sul piatto un’offerta imperdibile come è accaduto a Tannico…
Tannico rappresenta un gran bel segnale, per l’ecommerce, per il mondo del food and beverage e per il venture capital: è sintomatico del fatto che il mondo corporate per crescere deve guardare al digital. Ma è anche un deal figlio dei tempi: senza la spinta la digitale dettata dal Covid credo che la trattativa non sarebbe stata così rapida.
Quale tipologia di aziende state valutando attualmente? In che modo le conseguenze economiche del Covid-19 stanno mutando le tesi di investimento?
Siamo orientati a guardare imprese e operazioni ibride fra venture capital e private equity, come accaduto nel caso di Poke House. Ora guardiamo ad aziende con un fatturato compreso fra 15 e 50 milioni, ebitda positivo…
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