Scaleup, piccole startup crescono

Solo l’1,5% delle startup si trasforma in scaleup. In Italia non raggiungono quota 150 e quelle del food sono meno di dieci. L’imprenditore Lorenzo Franchini (nella foto), fondatore di ScaleIT, fa un bilancio. di francesca corradi

 

Il termine starup, che ormai è entrato nel lessico quotidiano e a volte usiamo impropriamente, non è poi di così recente invenzione e, da oltre vent’anni – dalla seconda metà degli anni Novanta – viene usato per indicare un’azienda innovativa e tecnologica. Oggi complice la richiesta di minori capitali e la presenza di maggiori canali, sono sempre di più le realtà che nascono.

Chi non ha oggi un amico o un parente strartupper?

Questo mondo all’apparenza entusiasmante e alla portata di chiunque abbia un’idea che reputa vincente, è però spietato e regolato da un codice binario. Le startup si dividono in due categorie: quelle che trovano un business model scalabile e crescono diventando scaleup, purtroppo la minoranza, e quelle invece che si perdono per strada e chiudono.

 

Ma come si riconosce una scaleup e qual è lo stato dell’arte in Italia? MAG lo ha chiesto a Lorenzo Franchini, imprenditore del venture investing, attualmente investor e advisor per LVenture Group e inoltre cacciatore di scaleup attraverso ScaleIT grazie al quale favorisce il matching tra le realtà innovative e il mondo corporate – potenziali clienti a cui vendere servizi – e un pool di fondi di venture capital internazionali alla ricerca di opportunità in Europa.

 

 

La prima annosa questione su cui fare chiarezza è senz’altro definire quando una startup fa il grande salto e diventa maggiorenne. Il fattore temporale purtroppo non è un valido indicatore. Se cinque anni fa, in media, servivano tra i quattro o cinque anni per diventare scaleup ora il processo sembra essersi velocizzato.

 

Un elemento da cui partire nell’analisi è senz’altro il product market fit ovvero il grado in cui un prodotto soddisfa una domanda del mercato. «Capire cosa vendere e a chi vendere sembra una cosa scontata ma non lo è. Sono molte le startup che hanno cambiato in corsa il modello – dice Franchini –. Il secondo fattore di definizione è l’incremento delle metriche ovvero del rapporto tra clienti, audience e fatturato. Tendenzialmente quando questo aumento è rapido e il fatturato mensile sfiora i 100mila euro diventa scaleup».

 

 «Riassumendo si tratta di combinazione tra prodotto e mercato ed evidenze di scala su quella combinazione. «È importante capire che la competizione è diventata globale perciò se si vuole rimanere sul mercato bisogna o crescere tanto e/o internazionalizzarsi», aggiunge Franchini.

 

Delle oltre 10mila startup registrate, sono ancora poche quelle che si trasformano. Negli ultimi tre anni, in Italia, il numero delle scaleup è rimasto costante ed è compreso tra le 100 e le 150. Di queste non arrivano nemmeno a dieci le realtà del food.

 

Secondo Franchini i motivi per il mancato decollo sono molteplici: dal difficile accesso ai capitali ai modelli scelti. «Le scaleup in grado di attrarre i capitali sono sempre un numero limitato. La parte post seed ovvero dopo il primo round da qualche centinaia di migliaia di euro e prima dei famosi round A e B, è una fascia poco coperta e poche aziende ricevono i finanziamenti che gli permettono di affacciarsi al mondo scaleup».

 

Nel 2019 tra le scalup interessanti si possono citare: Le Cesarine, piattaforma specializzate nelle esperienze di cucina casalinga italiana e Soul-k, la scale-up food-tech B2B che produce ingredienti semilavorati freschi, supportati da strumenti digital; entrambe food-tech e ammesse alla quinta edizione di ScaleIT. «Per le aziende food si parla comunque di circa 19 milioni di euro di raccolta su 18 startup e tra queste solo Cortilia è l’unica scaleup che ha superato un round da 2 milioni di euro», racconta il fondatore.

 

«Tra le realtà importanti che hanno partecipato alle precedenti edizioni ci sono inoltre Supermercato24 (leggi il MAG 118), la bulgara Hello Hungry, acquisita da Takeaway.com. Inoltre, ci sono il marketplace b2b Viniexport e Direttoo, la piattaforma che permette ai ristoranti di gestire gli acquisti e le materie prime», rivela Franchini.

 

Particolare attenzione merita il foodtech che attrae l’interesse degli investitori per l’essenza disruptive nell’innovazione di cibo e di business. In Italia…

di francesca corradi

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