Pittarello, questo non è (solo) un imprenditore
di francesca corradi
This is Not a Sushi Bar, è la prima catena italiana di sushi con servizio di consegna a domicilio, fondata undici anni fa a Milano da Matteo Pittarello, ex consulente, insieme a due soci. Il payoff che accompagna il format dal 2007 è “Unconventional sushi for Unconventional People”. Tutt’altro che purista, Pittarello è rispettoso della tradizione gastronomica giapponese senza appropriarsene e gioca con la negazione “not” con cui accompagna tutti i messaggi aziendali, a partire dal nome.
La comunicazione sul cliente, privilegiandone il punto di vista, e non sul prodotto è il vero segreto del loro successo (Apple docet), lo testimoniano infatti i 18mila iscritti alla newsletter, strumento attraverso cui comunicano quasi quotidianamente le loro storie semi-serie, riflessioni e naturalmente sconti o promozioni (se piove o c’è coda regalano un uramaki). Negli ultimi due anni il format ha raddoppiatofatturato(quasi due milioni di euro), punti vendita(da tre a sei) e personale (da 20 a 35 dipendenti, tutti assunti con regolare contratto). I ricavi provengono principalmente dal food delivery – oltre l’80% – con circa 50mila consegne all’anno euno scontrino medio tra i più alti nel settore, quasi 40 euro.
A MAG Pittarello ha raccontato la sua esperienza imprenditoriale, la svolta del 2017 con l’avvento della nuova governance, i suoi successi (tanti) e le sue prossime sfide (ambiziose) a cominciare da due nuove aperture, un libro fresco di stampa – con la prefazione di Beppe Grillo – e una serie televisiva sulla sua storia aziendale.
Com’è iniziata l’avventura di This is not a Sushi Bar?
È un format che ho fondato undici anni fa insieme a due soci, quando ancora le insegne giapponesi erano poco più di 200 (ora solo a Milano sono quadruplicate). Abbiamo iniziato investendo circa 30mila euro a testa, nessuno di noi li aveva cash in tasca. Io e Lorenzo, colleghi in Capgemini, ci siamo finanziati con lo “scoperto” della carta: compravamo le cose che ci servivano per il negozio e usavamo la carta di credito aziendale che ci dava 60 giorni di tempo per rimettere i soldi sul conto e dimostrare anche a noi stessi che le cose funzionavano. Avevamo adottato la filosofia “o la va o la spacca”.
E sembra sia andata bene…
Non sapevamo niente di sushi ma da clienti sapevamo come lo volevamo mangiare e ricevere a casa. Il primo punto vendita è stato aperto a gennaio del 2008 in Porta Venezia, via Nino Bixio. Da subito abbiamo attivato il servizio di delivery e, da esperti in logistica, abbiamo costruito un progetto e relativo software di gestione mettendoci nei panni dei clienti rispondendo a una domanda “come vorrei ricevere il sushi a casa?”, una sorta di “reverse engeneering”.
Ma parliamo di numeri…
Ora siamo a quota 1,8 milioni di euro lordi di fatturato e quest’anno contiamo di chiudere a due milioni di euro. Ovviamente senza utile, visto l’importante investimento nel retail con l’apertura di due negozi.
Cosa vuol dire per te fare l’imprenditore?
Ce l’ho nel dna. Vengo da una famiglia di imprenditori nell’abbigliamento e i compiti li facevo in laboratorio. Per me l’imprenditore è come un bimbo che gioca con i lego e costruisce un castello consapevole che possa crollare, nel caso non si perde d’animo e ricomincia a costruire, con tuttavia tutte le responsabilità e le attenzioni che è necessario avere, ma mantenendo intatto quello spirito.
Perché hai scelto d’investire nel sushi?
Un tempo non mangiavo affatto pesce. Ho deciso di puntare su questo prodotto, nonostante non faccia parte della nostra tradizione gastronomica, perché è un cibo di alta qualità, facilmente consegnabile a domicilio senza perdere le sue caratteristiche organolettiche, permettendoci di fare un format standardizzabile, internazionale e replicabile su larga scala. Nel 2007 c’erano…
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