Maida Mercuri, la regina dei Navigli sogna la Martinica

Lungo il Naviglio Grande a Milano, all’ora del caffè sui tavolini all’aperto, i passanti salutano Maida Mercuri, la signora del Pont de ferr. Quasi tutti la conoscono, d’altronde qui lei ha scritto un capitolo importante della storia della ristorazione milanese.
A fine 2016 la celebre osteria ha compiuto 30 anni e per la patronne è tempo di fare un bilancio di questa storia di successo, coronata anche dalla stella Michelin.
Dal 1986, quando la sommelier e il ristoratore Licio Mannucci rilevarono il locale, la zona circostante è cambiata notevolmente ed è stato proprio il Pont de ferr a contribuire in modo determinante alla rinascita del quartiere.
Ma il ristorante, nonostante la “scossa” della stella prima conquistata e poi persa (con ripercussioni sul business), ha sempre mantenuto la sua identità e il suo calore: qui alla vocazione del bere bene si affianca quella di una cucina curata, da cui sono passati i cuochi Hamed Sidi Ben Hassan, Juan Lema Pena (ora chef di Mirta), Matias Perdomo (l’artefice della stella e ora alla guida di Contraste) e oggi l’esperto Vittorio Fusari.
Dietro alla staffetta degli chef è rimasta sempre lei, la signora Mercuri, che ripercorre con MAG la sua avventura professionale e svela di cominciare a pensare a un futuro lontano dall’Italia.

Come è iniziato tutto trent’anni fa?
Negli anni 80 ho avuto la fortuna di essere già sommelier e di puntare sul vino di qualità, che poi sarebbe diventato una moda. Sentivo la necessità di creare un locale dove il vino fosse comunicazione, abbinato a formaggi e salumi selezionati e altri piatti.

Poi come si è sviluppato il progetto?
Negli anni hanno lavorato qui diversi chef, ognuno con le sue caratteristiche, che hanno fatto crescere la cucina. Ma il locale ha sempre mantenuto la sua identità, anche dopo la scomparsa di Licio Mannucci.

Gli chef sono stati anche soci del locale?
No, non mi sembra il caso di caricare il cuoco di un onere economico. Il mio credo è: uno in sala, uno in cucina. Così, nel caso di un ammutinamento generale del personale, il locale può aprire lo stesso.

Possiamo dire che ci sia stato un Ponte “pre” e “post” Perdomo?
Sì, ma gli anni migliori di Matias sono stati i primi, tra il 2006 e il 2007, quando era libero di dare sfogo alla sua fantasia e al suo stupore. Più tardi ha conquistato la stella Michelin, ma era diventato troppo estremo…

Poi Perdomo se ne è andato e ha aperto il Contraste…
Era il momento che provasse la sua strada. Dopo il suo addio abbiamo avuto delle difficoltà, perché Matias aveva portato con sé anche parte del personale. Ma dopo un lungo lavoro con Fusari oggi siamo soddisfatti.

Cosa è cambiato?
Vittorio ha grande esperienza, è il guru della scelta della materia prima, ha una profondità nel gusto che ricorda i sapori di una volta, oggi quella del Ponte è una cucina che accontenta più facilmente i clienti, più tradizionale ma con punte creative, che per me ci devono sempre essere.

Il locale è cambiato prima e dopo la stella Michelin?
La stella Michelin provoca grandi aspettative nelle persone, anche per quanto riguarda l’arredamento e il servizio, ma io non ho assoggettato il locale a questo genere di cose… per esempio non ho mai usato le tovaglie grandi. Non voglio ballare la musica suonata da altri, penso sia più importante avere la propria pelle addosso rispetto a una che non ti assomiglia.

Ma dal punto di vista della clientela?
Sicuramente c’è stato un cambiamento, soprattutto gli stranieri viaggiano tantissimo in base alla guida Michelin, quindi se non hai la stella ti manca questa fetta di mercato.

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