Max Mascia e l’eredità di Morini

Lo chef imprenditore innova e rinnova il San Domenico, portando avanti, insieme agli zii Marcattilii l’insegna imolese che ha fatto la storia della ristorazione italiana.

di francesca corradi

La sua brigata non lo chiama chef ma semplicemente Max. Massimiliano Mascia, classe 1983, è da sette anni alla guida del San Domenico: il ristorante imolese di Gianluigi Morini, antesignano della ristorazione italiana d’autore, al pari di Gualtiero Marchesi, Giorgio Pinchiorri ed Ezio Santin.

Serve, però, fare qualche passo indietro per capire la grandezza e l’impegno nella gestione di quello che, di fatto, è uno dei primi ristoranti pensati per far conoscere al mondo la grande cucina italiana.

È il 7 marzo 1970 quando Morini dà vita a un luogo che ha reso indimenticabile con un’atmosfera fuori dal tempo. Il San Domenico ha scalato tutte le classifiche delle guide gastronomiche. Nel 1973 viene segnalato nella Rossa, la prima stella arriva due anni dopo mentre il secondo macaron, che mantiene tutt’oggi, nel 1977, confermandosi il bistellato più longevo d’Italia. Il fondatore, morto a dicembre all’età di 85 anni, otto anni fa ha passato di mano la sua stessa creatura alla famiglia acquisita ovvero Valentino Marcattilii e Natale Marcattilii.

Dopo sette anni in alcune delle più grandi cucine del mondo – fino a Ducasse a Parigi e al Plaza Athénée in Costa Azzurra, Mascia nel 2013 prende le redini del ristorante diventandone socio, insieme agli zii.

Un ricambio generazionale così fluido e naturale che, dopo 50 anni, caratterizza ancora il San Domenico per l’accoglienza e l’efficacia di una cucina storica che sa evolvere, migliorarsi e incontrare le nuove generazioni.

Il segreto di Morini e dei successori sta nell’avere mantenuto “il focus su quattro assi cardinali che lo contraddistinguono: tradizione, memoria, ricerca e inventiva”, come lo descrive ancora oggi la Guida Michelin. In mezzo secolo sono riusciti a preservare l’identità, lo spirito di avanguardia e il sogno di un luogo di condivisione e grande calore, quello di una famiglia.

Lo chef 37enne, che ha innovato e rinnovato il San Domenico, racconta a MAG cosa significa essere uno chef imprenditore e affrontare le sfide della ristorazione.

Quali sono i pro e i contro di essere l’erede e guidare un luogo simbolo dell’alta ristorazione italiana?

I pro sono tanti significa avere la possibilità di portare avanti il nome, con tutto ciò di sfidante, bello, intrigante che comporta. Non mi fa abbassare mai la guardia consentendomi di migliorare giorno dopo giorno. È un continuo stimolo a fare qualcosa di meglio per essere all’altezza della fama di chi mi ha preceduto. Il grosso contro, invece, c’è stato forse solo all’inizio della mia carriera, quando sono andato a lavorare in altre cucine: venendo dal San Domenico davano per scontato io sapessi fare quasi tutto.

Cos’ha fatto prima di diventare un imprenditore?

Ho dovuto studiare nuove tecniche e sapori, sfidare i miei limiti, mettermi alla prova. Negli Stati Uniti ho imparato a lavorare a ritmi sempre elevati e ho compreso l’importanza dell’organizzazione del lavoro. In Francia, invece, ho approfondito la tecnica di cucina e ho percepito il grande valore della storia e della cultura gastronomica. In Italia ho studiato attentamente la materia prima, che non ha eguali nel mondo per livello qualitativo.

Cosa vuol dire fare alta ristorazione in una piccola realtà come Imola?

C’è una grande differenza tra metropoli e provincia. Oggi, forse, sembra più facile mandare avanti un ristorante di cinquanta coperti in un piccolo centro piuttosto che in grandi città, soprattutto se turistiche. Il nostro sforzo è fidelizzare il cliente che va dalla coppia alla famiglia, fino al gruppo di amici. Siamo come un ristorante non stellato in città.

Cosa vogliono dire gestione, elaborazione e organizzazione?
Sono uno chef imprenditore e socio del San Domenico dal 2013, insieme ai miei zii Valentino Marcattilii e Natale Marcattilii. Rispetto al cucinare e basta mi occupo anche di far quadrare i conti, che non è affatto facile.

Come vanno, a proposito, gli affari?

Il San Domenico è sempre andato bene, accusando un po’ crisi solo attorno al 2010-2012. Grazie a qualche scelta vincente si è rimesso in moto e poi è stato un crescendo fino a febbraio 2020. Negli ultimi sette anni abbiamo raddoppiato il fatturato e, ancora dobbiamo fare bene i conti, ma nell’anno appena trascorso dovremmo aver  perso circa il 18-20%.

Qual è la chiave del successo del San Domenico?

La filosofia, l’identità, il rimanere al passo con i tempi senza seguire le mode. Il nostro cliente cerca certezze, sapori e atmosfera.

Se le dico territorio?

È un elemento indispensabile e questo fa parte di una identità precisa fatta di materie prime e piccoli produttori. Ogni giorno ho la possibilità di prendere la macchina e andare a fare visita agli allevatori, ai coltivatori selezionando personalmente la merce da acquistare. Questo mi dà sicurezza in cucina anche se non sempre è facile, per una realtà piccola, trovare chi ci asseconda, anche al di là dei volumi piccoli.

Com’è cambiata la ristorazione in questi anni? E nell’ultimo?

C’è più consapevolezza di dover lavorare in un certo modo. Fino a un anno fa non si pensava a determinate dinamiche, oggi siamo…

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Foto di Niko Boi

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