The Menu. Quando la cucina perde se stessa

di letizia ceriani

Il cibo a regola d’arte, il cibo per gli occhi e per il palato, il cibo come concept, come simbolo, il cibo nella lotta di classe. The Menu al cinema si fa notare. Un thriller curato, intelligente e inquietante q.b. The Menu indovina uno dei temi della nostra epoca: il cibo come chiave di lettura antropologica.

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Da quando esiste l’uomo esiste il cibo. Bisogno primario, nutrimento del corpo, e rimando al sacro. Come noi il cibo si evolve, si libera delle sue spoglie mortali e diventa concetto, filosofia, archetipo.

Julian Slowich, executive chef di un noto ristorante stellato che sorge su un’isola, ha creato veri e propri ecosistemi da cui ricava le materie prime: capesante, ostriche, selvaggina, alghe e muffe.

Tra i commensali, una critica gastronomica spietata e il suo galoppino, una coppia di clienti affezionati e annoiati, un giovane feticista – più che fan – della cucina, tre giovani investitori, un personaggio televisivo e la sua curatrice di immagine. E poi c’è Margot, interpretata dalla magnetica Anya Taylor-Joy, che non dovrebbe essere lì.

Il ritmo della pellicola è cadenzato dai tempi del menu, preparato dalla brigata a suon di gong. Ben presto, quella che sembrava un’esclusiva experience immersiva e di alto livello, si rivela essere una trappola mortale. L’invito dello chef: «non mangiate, gustate».

Cibo e morte. L’origine del cibo è connessa al senso di casa, di focolare, di appartenenza e di riparo, ma condivide un’intimità anche con la morte. Per mangiare bisogna anche uccidere, sradicare le piante, raccogliere i frutti, invadere gli spazi della natura, estirparli. The Menu inserisce tutto questo in un’elegante cornice fatta di immagini, sensazioni nette, concetti perturbanti.

Ogni portata, a partire dall’amuse-bouche, porta il concetto all’eccesso; emblematica la portata del “pane senza pane”. Il pane tradizionalmente cibo dei poveri, risorsa della gente comune, è una portata (questo accade per davvero, al di fuori del grande schermo) che invita a soffermarci sulla nostra idea di normalità e di quotidianità. Il grano oggi è ricchezza e non è scontato che sia incluso nel coperto. Il pane senza pane… 

Incontro, memoria ed espiazione. Il finale risveglia René Girard dal sonno eterno:c’è la vittima sacrificale (i commensali rimasti e l’intera brigata), c’è il rito (il tempo del menu), c’è una colpa collettiva (nella misura in cui ognuno si unisce al coro portando il proprio fardello). Si spiega allora una battuta pronunciata dalla maître a denti stretti: «Mangerai meno di quanto desideri e più di quanto meriti».

Il sacrificio degli invitati – vestiti di marshmallow e cioccolato – espieranno la colpa di un’intera classe, recuperando – attraverso la morte simbolica del fine dining – il senso profondo del cucinare, intrinsecamente connesso alla dinamica del dono come esaudimento del desiderio di essere nutriti e quindi amati.

Atto finale: vita nova. In questo apocalittico atto finale, la memoria si ridesta e si incarna in un “banalissimo” e gustosissimo cheeseburger, addentato e poi riposto nella sua doggy bag, insieme a Proust e a Freud.

La complessità è complicazione fine a se stessa, è la ricerca di una perfezione impossibile, e l’incapacità di sintesi, intesa come superamento del conflitto, come dispiegamento del senso ultimo del nostro fare.

Non ci sono salvati né vittoriosi, ma solo sopravvissuti. Quasi a voler ricreare una nuova catena alimentare, l’uomo torna al suo stato primordiale di fame e di ricerca e la cucina è solo una delle vie possibili.

Clicca qui per ascoltare il podcast sull’argomento.

Letizia Ceriani

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