La goffa tenerezza di The Bear

di letizia ceriani

Si fa sempre più strano e complicato il rapporto tra uomo e lavoro. Gelida macchina generata dal Novecento capitalista, il lavoro, con le sue maschere, fagocita il mondo circostante, eppure è necessario. La serie televisiva The Bear attraversa questa stramba e contraddittoria liaison.

Qual è lo scopo della vita? Se lo chiede il cugino Richie, e se lo chiedono tutti i personaggi, orientati verso quello che è un obiettivo, l’occasione per riprendersi e vincere. Almeno una volta. Ma la vittoria è per chi non conosce sconfitta, e il fallimento – nel cinema come nella realtà – è pane quotidiano. The Bear non è una favola agrodolce, è più una tragedia in senso aristotelico.

Diretta da Christopher Storer – potremmo dire, è al suo primo e vero debutto – la serie mette in campo motivi decisamente esistenziali, e lo fa con una semplicità disarmante, una testarda tenerezza che accompagna la macchina da presa, crea distanze tra i personaggi, dà forma e peso alle parole, mai casuali, che suscitano più domande che risposte.  

Il personaggio più interessante della seconda stagione è senza dubbio – e chi abbia dei dubbi si faccia pure avanti – Richard, “Il Cugino”, che, alla chef più famosa e stimata del Globo, chiede: perché arrivi presto la mattina per fare un lavoro che potrebbero benissimo fare gli stagisti? «Per rispetto e affetto», risponde lei senza troppi giri di parole. È o non è la radice del cucinare. È o non è la spina dorsale dei convivi e dei pranzi della domenica a cui noi italiani siamo così affezionati.

La fatica, l’ossessione, la mania di perfezione, che ammiccano all’ambiente cristallizzato, violento e irreale del film The Menu, lasciano il posto al fine – che giustifica i mezzi? –, allo scopo ultimo che guida la mano dei cuochi: creare felicità. 12 ore di lavoro, zero pause, stress costante, ambienti tossici, eppure… Quell’eppure permea il respiro di entrambe le stagioni, anche se a volte l’ossigeno è centellinato.

Puntata speciale, la cena di Natale. Un’ora di pura tensione, che mette in scena una banalissima (si fa per dire) cena di Natale in famiglia. Una parabola della vita, di una verità incisiva, talmente incisiva da lasciare senza parole. E come dopo una seduta psicanalitica, tutto torna: i comportamenti, i rituali, le paure, i tic. I pezzi del puzzle tornano al loro posto. Ma non c’è risoluzione. Rimane la miseria. Dopo 16 puntate di The Bear, in cui l’affetto e l’empatia avevano quasi vinto sull’incontestabile delirio cosmico dell’umano rappresentato, tutto sembra tornare. Eppure, qualcosa continua a cigolare.

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Letizia Ceriani

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